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23/06/2009 19:09:50

L'astensionismo, il referendum, e le “porcate” a noi care

Forse sarebbe continuato ugualmente, anche perché il testo del referendum, diviso in tre quesiti, sembrava un po’ “truffaldino” nei confronti dell’elettore. I referendum, appunto perché sono forme di intervento del popolo, devono essere chiari e semplici. Nella loro presentazione attraverso i mass media devono soprattutto essere illustrate le concrete modifiche che apportano alla normativa esistente e non riflettere le esigenze dei partiti. Era prevedibile il non raggiungimento del quorum, e non ci sarebbe da stupirsi se la Commissione per il referendum avesse avuto lo stesso presentimento. Un misero 23% che chiude le miti speranze dei partiti maggiori che con la vittoria dei Sì si sarebbero affrontati nel bipartitismo, e fa tirare un sospiro di sollievo a quelli di seconda fascia., Nella provincia di Trapani i votanti sono stati il 18,75% degli aventi diritto, misera l’affluenza alle urne che in molti comuni non ha toccato nemmeno il 10%, eccezion fatta per Mazara del Vallo che si è aggiudicata il primato col 63% delle schede compilate in concomitanza col ballottaggio per le comunali.
E’ curioso, davvero, notare come è stato movimentato lo scenario in tema di riforme delle leggi elettorali da Tangentopoli ad oggi. Non si sono susseguiti Referendum e riforme ogni anno, ma se si considera che dal ’93 a oggi sono state approvate due riforme elettorali (il “Mattarellum” ed il “porcellum”) e indetto un referendum, a differenza dell’unico cambiamento, la “legge truffa” del ‘53 cestinata poi l’anno successivo, dalla ratifica della Costituzione a Tangentopoli, affiora un certo cambiamento di tendenza. Una certa ricercatezza da parte dei partiti, soprattutto per le corazzate meglio equipaggiate, ad eludere il reale consenso con metodi di ripartizione dei voti poco compresi da politologi, materiale per crittologi più che altro.
L’attuale legge elettorale, promulgata su proposta del leghista Calderoli nel dicembre 2005 e da egli stesso ribattezzata “porcata”, prevede il cosiddetto “premio di maggioranza”. Viene garantito un minimo di 340 seggi alla Camera alla coalizione che ottiene la maggioranza dei voti, per il Senato viene dato almeno il 55% dei seggi a regione. La “porcata” del premio di maggioranza è un episodio sporadico in Europa che solo l’inventiva del politico italiano poteva mettere in atto. Questo espediente adesso, come in passato, è stato giustificato con l’esigenza di dare maggiore stabilità all’elite al potere per consentire un sereno governo del paese. Già, come nel passato.
Facendo qualche passo indietro, esattamente al 1923 incontriamo un’altra squisitezza legislativa, relativamente giustificabile col senno di poi in quanto redatta dal nascente regime fascista. Si tratta della “legge Acerbo”, anch’essa prevedeva il “rispettabilissimo” premio di maggioranza. Sottoposto a esame da una commissione composta da esponenti di tutti i partiti politici dell’epoca, la legge venne approvata il 18 novembre 1923 e sanciva la possibilità per ogni lista di presentare un numero di candidati pari ai 2/3 dei seggi in palio (365/535). La lista che avesse ottenuto la maggioranza dei voti col 25% avrebbe eletto in blocco tutti i candidati lasciando al resto dei partiti la divisione dei 179 seggi restanti (161 effettivi, alla fine). L’anno successivo il Listone Mussolini ottenne il 61,3% dei voti (“leggermente” truccati) e si aggiudicò il premio, ma ormai il parlamento era vicino a diventare un’esclusiva del regime.
Stessa fortuna non toccò invece alla DC di De Gasperi che nel 1953 non si aggiudicò il premio di maggioranza per un soffio. La celeberrima “legge truffa” approvata in extremis prima delle elezioni prevedeva la gradita concessione del 65% dei seggi alla lista o gruppo di liste che avessero raggiunto il 50% + 1 delle preferenze. DC: Debacle Cristiana, e la “legge truffa” venne abrogata solo un anno dopo.
Qui sorgono delle contraddizioni. Ci si è cimentati spesso in situazioni del genere, che consentissero un largo “consenso” alla classe eletta, ma poche volte s’è pensato ad agevolare la votazione da parte dei cittadini. Siamo arrivati in ritardo col suffragio universale e con la legge per il diritto al voto per gli italiani all’estero e ancora manca un provvedimento per consentire il sacrosanto diritto agli studenti e ai lavoratori fuori sede. Circa il 20% degli studenti universitari italiani (1 milione 800 mila) è iscritto in un’università la cui sede è ubicata in un’altra regione rispetto a quella di residenza. In Sicilia quasi la metà degli universitari frequentano gli studi fuori dalla propria provincia (il 15% attraversa lo Stretto per migliorare il proprio futuro). Qualcosa forse si sta muovendo: il PD, che vagheggia in momenti sterili e opposizioni apatiche, ha recentemente presentato un disegno di legge che consentirebbe l’esercizio del diritto al voto, per i fuori sede, per corrispondenza, sicuramente più pratico ed economico rispetto alle agevolazioni sui prezzi dei biglietti dei mezzi di trasporto. Per i politici italiani, non solo quelli attuali, la via più lunga per il cittadino è la più agevole per il proprio mantenimento della poltrona. I cittadini hanno sempre svolto parzialmente il loro ruolo, non per ozio, ma per impossibilità istituzionale. Gli elettori, al momento delle elezioni, danno un mandato “in bianco” ai partiti per la formazione del governo, sulla quale non possono assolutamente incidere. E con i passati e recenti sistemi elettorali si dà anche meno spazio alle minoranze in parlamento che finiscono per assumere il ruolo di mera comparsa davanti al “dispotismo della maggioranza”, come la intendeva Tocqueville.

Francesco Appari