“Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell'altra parte...”.
A leggere delle vicende umane ed imprenditoriali di due nostri concittadini, di recente assurti – benchè per ragioni diametralmente opposte – agli onori della cronaca nazionale, torna in mente l’incipit del celebre romanzo di Charles Dickens. Michele Licata e Bruno Fina, incarnano, infatti, con le scelte imprenditoriali e i loro differenti stili di vita, due modi di essere ed operare nel mondo dell’economia e nella comunità cittadina.
Plastica rappresentazione, il primo, di un perverso rapporto tra Etica e Profitto, del motto di Steve Jobs – “stay hungry, stay foolish” – deve aver interiorizzato solo la prima parte: nel volgere di alcuni anni, trasforma il mitico, paterno ‘chioschetto’ – sorto all’inizio degli Anni Settanta, tra il “Mediterraneo”e il “Signorino” – in un colosso del settore ristorativo–alberghiero, a discapito, però, dei diritti fondamentali dei suoi dipendenti (orari dilatati per salari striminziti). Sfrutta tutte le possibilità offerte dalle norme europee e nazionali, più che per costruire occasioni di investimento e di crescita per la sua impresa e, a cascata, per l’intero territorio, per incrementare a dismisura il patrimonio personale e quello dei suoi “famigli”. Oggi, purtroppo, trascinati dalla cupidigia del famelico congiunto, nell’ignominia: evasione e frode fiscale, riciclaggio e auto-riciclaggio: questi i reati di cui presto dovranno rispondere all’autorità giudiziaria.
Ma, tornando al chiosco d’antan: adolescenti, all’inizio degli Anni Settanta, attorno al juke-box che campeggiava al suo interno, ruotavamo in tanti. Bruno Fina compreso. Che, decenni dopo, quando intraprende, insieme a tutta la famiglia, la sua attività, bada certo al profitto, ma coniugandolo ad un’etica della responsabilità divenuta, nel corso del tempo, uno dei tratti distintivi del suo successo (fondato anche sul notevole apporto, prima della sua prematura scomparsa, dell’amata consorte).
Ecco: a parer mio, queste due storie rappresentano due diverse idee di città (“Le due città” è, in effetti, il titolo del romanzo citato all’inizio). Ed è ovvio che io, tra le due, parteggi per la seconda.
Tuttavia, non contribuirei a sostenerla, dando, della famiglia Fina – così come hanno fatto i curatori della trasmissione di Rai Tre, “Questi sconosciuti” – una rappresentazione troppo oleografica. Così come, del resto, sarebbe banale criminalizzare soltanto Michele Licata, finendo così per assolvere – in una vicenda che chiama in causa legioni di alti burocrati e amministratori pubblici e privati, liberi professionisti e imprenditori, funzionari di banca e membri di importanti organi di vigilanza e di controllo – l’intero, sciasciano ‘Contesto’.
La cui connaturata vischiosità, forse, avrebbe dovuto consigliare, qualche mese fa, al Sindaco Alberto Di Girolamo, nel suo ruolo di Segretario Cittadino del PD, maggior cautela nell’accogliere, nella lista del Partito Democratico, la candidatura del consuocero del “Re della Ristorazione”: se non altro, per motivi di opportunità politica. Così come, oggi, magari in sinergia con il Sindaco di Petrosino, farebbe bene ad avviare un’azione perentoria di “recupero crediti” nei confronti del Licata (debitore per tributi comunali non versati di circa 2 milioni nei confronti del Comune di Petrosino e di 1,5 milioni verso quello di Marsala). E, una volta raggiunto l’obiettivo, a chiamare i cittadini – in chiave di ‘bilancio partecipativo’ – a condividere gli impieghi prioritari che le somme così recuperate potrebbero consentire, a pubbliche amministrazioni dalle casse sempre più smunte, esangui, se non addirittura anoressiche.
G.Nino Rosolia