Maria Concetta Riina, 39 anni, incensurata, figlia di Gaetano Riina, fratello del “boss dei boss” di Cosa Nostra, Totò “u curtu” (anche Gaetano è stato condannato per mafia), deve essere reintegrata nel suo posto di lavoro: segretaria nella concessionaria “Mondo Auto 3” di Strasatti. La prima sezione del Tar di Palermo, presieduta da Nicolò Monteleone, ha infatti sospeso l'informativa antimafia “interdittiva” del prefetto di Trapani che, di fatto, aveva costretto il titolare della concessionaria marsalese, Giovanni Sciacca, a licenziare la dipendente dal cognome tanto “pesante”. Adesso, i giudici amministrativi hanno riconosciuto che "l'informativa impugnata da cui è scaturito il licenziamento di Maria Concetta Riina, risulta adottata senza adeguata istruttoria ed esclusivamente sulla base di legame parentale con noti pregiudicati della stessa ricorrente, che era segretaria della concessionaria". Oltre a Maria Concetta Riina, assistita dagli avvocati Salvatore e Luigi Raimondi e Giuseppe La Barbera, anche Giovanni Sciacca, rappresentante legale anche di una società immobiliare (Immobiliare Sciacca S.r.l.) aveva presentato ricorso contro il provvedimento che l’aveva costretto al licenziamento. Anche questo ricorso questo accolto dal Tar. Ad assistere Sciacca è stato l’avvocato marsalese Stefano Pellegrino. Con Maria Concetta Riina alle dipendenze non sarebbe stato possibile avere il “certificato antimafia” e di conseguenza nessuna possibilità di finanziamenti o contratti pubblici. “La inquietante presenza nell’azienda della signora Riina – recitava il documento della Prefettura – fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell’organizzazione mafiosa ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un’oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”. Eppure, sottolineava uno dei legali della Riina, Giuseppe La Barbera, la fedina penale della donna è “immacolata”. Ma per il prefetto “la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione”. La Riina lavorava come segretaria nella concessionaria automobilistica di Strasatti da dieci anni. “E’ un problema sociale – sostiene l’avvocato Stefano Pellegrino, che ha assistito l’azienda insieme a Daniela Ferrari e Giuseppe Bilello – perché sociale è il rischio che deriva dall’esasperazione del concetto di antimafia. Questa pseudo attività amministrativa si risolve in una vera e propria sanzione. Ma la nostra Costituzione non prevede sanzioni per il fatto di avere un cognome pesante. La Costituzione si basa su due principi: tassatività e legalità. Ogni sanzione penale deve essere prevista dalla legge a fronte di un reato”. L’avvocato Pellegrino ha, inoltre, evidenziato che potrebbe crearsi una sorta di conflitto tra poteri dello Stato se anche il giudice del lavoro dovesse ordinare il reintegro della donna in azienda. “Perché – dice - il solo cognome non costituisce giusta causa di licenziamento”. Non è comunque la prima volta che scattano licenziamenti dopo una “interdittiva” antimafia. E’ già accaduto, nel 2014, in provincia di Crotone, quando a Strongoli e Cirò, dopo il provvedimento del prefetto, l’impresa che si occupava della raccolta dei rifiuti licenziò 15 netturbini. Lo scorso 30 gennaio, il giudice del lavoro ha riconosciuto all’azienda la “giusta causa”. Non per i cognomi o i rapporti di amicizia con esponenti della ‘ndrangheta, ma per l’interdittiva, che nel frattempo, però, era stata annullata dal Tar.