Continua oggi a Trapani il singolare processo che vede imputato il giornalista Rino Giacalone, citato per diffamazione dalla vedova del mafioso Mariano Agate, Rosa Pace. Si tratta del procedimento per «diffamazione a mezzo stampa» scaturito da una querela mossa da Rosa Pace, vedo del capomafia di Mazara del Vallo deceduto per cause naturali nell'aprile 2013. Nell'articolo pubblicato sul blog Malitalia, ed intitolato «Don Mariano Agate è arrivato al capolinea» il giornalista ripercorreva il palmares criminale del boss mazarese, etichettandolo come «un pezzo di merda». Nell'immediato la vedova del boss – per 20 anni al 41 bis per vari reati, fra i quali l'omicidio Ciaccio Montalto, l'omicidio Lipari e la strage di Capaci – aveva annunciato querela per diffamazione, mentre a sostegno del giornalista erano intervenuti i familiari delle vittime di mafia rivendicando «che i cosiddetti uomini d’onore, in realtà, non hanno nessun onore».
E' dello scorso ottobre invece la citazione diretta in giudizio per diffamazione disposta dal pm Franco Belvisi. «Mi chiedo quale reputazione da vantare poteva avere il mafioso condannato Mariano Agate – ha dichiarato Rino Giacalone - e quale reputazione voglia difendere la sua vedova. Non ritengo che nel caso di Agate ci possa mai essere una reputazione da difendere».Oggi dinanzi al giudice monocratico, Gianluigi Visco verrano ascoltati i testi citati dal Pm. E cioè Laura Aprati, direttrice del blog Malitalia, e due agenti di polizia giudiziaria che hanno fatto gli accertamenti. La difesa di Giacalone è rappresentata Carmelo Miceli e Enza Rando, quest’ultima appartenente all’ufficio legale dell’associazione Libera. Alla prima udienza in aula erano presenti diverse sigle associative tra cui il gruppo «Rita Atria» delle Agende Rosse.
PALERMO. La Corte d'Appello, sezione Lavoro, di Palermo ha riconosciuto il rapporto di lavoro dipendente con la Regione dei giornalisti Gregorio Arena e Giancarlo Felice, componenti da oltre vent'anni dell'Ufficio stampa della Presidenza e licenziati nel 2012 dal governatore Rosario Crocetta. Lo ha reso noto l'Assostampa Sicilia, aggiungendo che la Corte, con la stessa ordinanza, ha deciso di trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sulla legittimità della procedura di assunzione. "Viene così clamorosamente e definitivamente smentita - afferma l'Assostampa - la fantasiosa tesi del presidente Crocetta che il rapporto di lavoro fosse di natura meramente fiduciaria e di collaborazione. Va ricordato infine che, perseguendo i suoi fini, il governatore ha lasciato da oltre due anni la Sicilia senza un ufficio stampa strutturato e soprattutto al passo con i tempi. Unico caso attualmente esistente in Italia". "Non sembra potersi dubitare sulla natura di rapporto di lavoro subordinato - affermano i giudici - sussistendo infatti tutti quegli elementi sintomatici che secondo la giurisprudenza amministrativa strutturano il rapporto di impiego pubblico come il vincolo di subordinazione gerarchica, l'inserimento stabile nell'organizzazione dell'Ente, l'utilizzazione sulla base di ordini di servizio o atti equivalenti nel quadro di un orario di lavoro predeterminato, stabilità e continuità del corrispettivo, l'esclusività nella prestazione dell'attività lavorativa". Il collegio si sofferma sull'art. 11 della legge regionale 79/76 istitutiva dell'Ufficio stampa e documentazione della Regione affermando che "poiché si tratta di posti in organico istituiti con legge, soltanto così (cioè come lavoro subordinato ndr) può intendersi il testuale richiamo al trattamento normativo ed economico previsto dal Ccnl (Fnsi-Fieg, ndr) per i giornalisti in relazione alle qualifiche di equiparazione".